Frodi fiscali, la buona fede è sempre opponibile ma va dimostrata.

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“La buona fede diventa centrale per evitare il coinvolgimento negli illeciti fiscali: è quanto emerge dal consolidato orientamento dei giudici europei e nazionali. Il concetto di buona fede ha assunto negli ultimi tempi particolare rilevanza per la registrazione di fatture che poi si scoprono soggettivamente inesistenti. In queste situazioni le irregolarità fiscali commesse dal fornitore o dal proprio cliente potrebbero pregiudicare il diritto di detrazione o comportare la pretesa Iva se il contribuente non dimostra che non avrebbe potuto sapere di partecipare ad una frode.”  (Fonte: Il Sole24Ore, Laura Ambrosi e Antonio Iorio)

È opportuno, pertanto, che il contribuente adotti delle misure preventive per verificare – per quanto gli sia consentito – la “regolarità” dell’operatore con cui intrattiene rapporti commerciali, in modo da poter dimostrare la propria buona fede in ipotesi di contestazioni. Va ovviamente considerato che il contribuente non deve scoprire frodi o evasioni, né sostituirsi agli investigatori. Così potrebbe essere utile svolgere i seguenti controlli tenendo presente che non si tratta di un’elencazione esaustiva o imposta per legge, ma di regole di buon senso desumibili dalle più frequenti contestazioni in materia:

Accertamento dell’esistenza. Attraverso visure camerali, siti internet, ricerche presso altre banche dati commerciali e altre verifiche analoghe è opportuno riscontrare che l’impresa sia operativa e regolarmente iscritta nei pubblici registri e che gli amministratori non risultino già coinvolti in frodi (per quanto è possibile apprendere).

Locali compatibili. Una delle principali eccezioni dei verificatori attiene l’esistenza di una sede compatibile con l’attività svolta. Si pensi ad esempio ad una società che produce scarpe, ma che formalmente risulti operativa solo in un ufficio: si tratta evidentemente di un’anomalia che dovrebbe richiamare l’attenzione del contribuente.  Titolari e/o dipendenti. È necessario individuare la qualifica del soggetto con il quale si intrattengono concretamente le operazioni commerciali (legale rappresentante, dipendente eccetera) e accertarsi che sia effettivamente riconducibile all’impresa indicata in fattura.

Contratti, email e fax. Nell’ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti, è importante la conservazione della corrispondenza dalla quale può emergere che l’interlocutore era un soggetto riconducibile alla società emittente le fatture. Potrebbe essere rilevante verificare l’indirizzo di posta elettronica con cui si scambia la corrispondenza e, in particolare, se ha un’estensione generica o riporta il dominio della società.

Dichiarazioni di intento. La nuova norma impone che il contribuente si accerti che il proprio cliente abbia inviato la dichiarazione d’intento in via telematica alle Entrate. È verosimile ritenere che tale adempimento, oltre alle verifiche sull’esistenza dell’impresa, sia di per sé sufficiente per la non imponibilità dell’operazione.

I prezzi. Se particolarmente competitivi, sono un indice di rischio. Il contribuente, quindi, dinanzi a divergenze eccessive rispetto alla media del mercato, dovrebbe approfondire le proprie “indagini”.

Pagamenti e Ddt. La giurisprudenza, ormai con un orientamento univoco, ha affermato che la regolarità nei pagamenti non esclude la colpevolezza del contribuente. Ad ogni buon fine, però, occorre che siano regolari e rispettino il contratto, nel caso in cui sia stato sottoscritto. Inoltre, prudenzialmente occorre conservare le prove dei trasporti e delle consegne delle merci.

Si tratta sicuramente di controlli impegnativi per le imprese, sia per la mole di documenti da conservare sia per il costo cui si incorre per le ricerche nelle banche dati. Tuttavia, alla luce dell’orientamento della Suprema corte, potrebbero essere l’unica difesa per garantirsi la detrazione o la non imponibilità ai fini IVA.

Fonte: Il Sole24Ore
Dott. Roberto Pinna – AREA CONTABILE E FISCALE

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